Nel precedente post sull'argomento (vedi QUI) si sono innescati interessanti dibattiti riguardo la censura televisiva operata sui cartoni animati giapponesi.
Con la domanda delle domande: perché in Italia gli anime venivano censurati e i cartoon americani/europei no?
Oggi proviamo a rispondere a questo quesito, facendo un viaggio nel tempo fino all'arrivo dell'animazione nipponica in Italia...
È passato tanto tempo da quando la Mediaset censurava i prodotti giapponesi; una pratica di cui troviamo ancora traccia nelle repliche delle serie che le reti mandano ancora in onda; una pratica che col tempo si è attenuata fino a sparire del tutto.
Oggi addirittura si cerca di reintegrare quel che prima era stato tagliato (vedi le ultime trasmissioni di Sailor Moon, È quasi magia Johnny...); i nuovi adattamenti sono più fedeli (la stessa Mediaset ha reintrodotto gradualmente, ad esempio, i nomi originali che prima aveva storpiato: vedi One Piece); le nuove serie trasmesse non presentano più censure e si cerca persino di recuperare titoli cult (Orange Road, YuYu Hakusho...).
Sono passati tanti anni anche dalle petizioni, dalle iniziative delle associazioni per la tutela delle opere d'arte d'animazione giapponese.
Oggi si può riflettere col senno di poi sul perché gli anime venissero censurati (QUI per approfondire); ma giustamente ci si chiede ancora perché i cartoni giapponesi erano sottoposti a questa fastidiosa pratica arbitraria e quelli americani (o europei, comunque occidentali) no.
IMPERATIVO VENDERE
Alla base di tutto c'è il fatto che bisogna vendere.
Una questione economica, che vale tanto in Italia quanto in Giappone.
Il paese produttore dell'opera ha tutto l'interesse di vendere la stessa ad altri mercati: l'Italia è uno di questi e di contro deve monetizzare sulla stessa opera che ha acquistato.
Specie se si tratta di una rete commerciale, come Fininvest/Mediaset appunto, e specie se alla base c'è tutto un piano di lancio del titolo, che prevede anche giocattoli, merchandising e prodotti abbinati (di altre aziende che si "associano" alla trasmissione televisiva).
Sembra brutale, messa così, ma solo se la guardiamo romanticamente dal lato artistico: in realtà i cartoni animati sono un prodotto di intrattenimento che deve piacere e spingere all'acquisto dei prodotti correlati, oppure garantire uno share di gente davanti alla televisione, ferma a guardare le pubblicità di altri prodotti.
Gli stessi giapponesi sono consapevoli di questo, tanto che arrivano a tagliare preventivamente alcune scene pur di "vendere meglio" i loro prodotti (vedi I Cavalieri dello Zodiaco, QUI).
GLI ANIME? MEGLIO DEI CARTOONS
Rispetto a tante serie occidentali, proprio gli anime hanno una marcia in più.
Anche quando smaccatamente per bambini, spesso e volentieri presentano un approccio molto diverso alla serialità: storie che iniziano e finiscono, continuity, regia accattivante e personaggi mai bidimensionali.
Ovvio che storie del genere attiravano di più il pubblico, specialmente fino agli anni '90, rispetto alla piattezza di tanti coevi prodotti americani/europei.
Dunque, i mercati non potevano fare a meno degli anime.
ANIMAZIONE? ROBA PER BAMBINI
Forse solo adesso si è finalmente superato il pensiero -ovviamente errato- che i cartoni animati siano un prodotto sempre e comunque destinato ai bambini.
Non ho nemmeno idea da dove possa essere nato un simile assurdo concetto, né perché; fattostà che in Italia ciò che era animazione significava essere automaticamente rivolto a un pubblico infantile.
E se larga parte dei prodotti americani rispondeva effettivamente a questa credenza, in Giappone le cose stavano diversamente: una storia è targettizzata in base a ciò che racconta e a ciò che mostra; il fatto che sia animata è solo un modo per esprimere la stessa.
Esistono dunque anime per bambini piccoli ma anche per ragazzini; anime per adolescenti e anime per adulti.
Ma, nel calderone italiano, visto l'appeal innegabile che queste opere esercitano sul pubblico, ci finiva di tutto.
Alle ore 16.00, su Bim Bum Bam. Anche ciò che in Giappone magari veniva trasmesso alle 20 di sera.
CULTURE DIVERSE, CULTURE DOMINANTI
Ma oltre questo, c'è comunque da fare una distinzione culturale: anche se l'opera giapponese avesse avuto lo stesso target di riferimento presso la platea italiana, molto probabilmente non sarebbe stata considerata adatta al 100% a questo nuovo pubblico.
Perché da noi la cultura dominante è, oltre quella catto-centrica e morigerata italiana, la rassicurante (e spesso "cazzona") cultura americana.
Abituati a questo, formati con la Disney, Hannah-Barbera, Warner Bros., Tom & Jerry o il nostrano Super Gulp!, non comprendiamo fino in fondo certi sottotesti di cui anche gli anime sono profondamente intrisi; e che, se da un lato ci sembrano delle figate che esulano dai soliti canoni occidentali, dall'altro non possono andar bene a chi monitora sulla televisione (vedi il Moige).
E, per estensione, nemmeno a chi la televisione la gestisce.
PER RAGAZZI, MA PER TUTTI
I giapponesi sono abituati a fare il bagno insieme; non è strano vederli girare mezzi nudi alle terme oppure in famiglia.
Un concetto così semplice che però esplica alla perfezione la differenza culturale tra noi occidentali e loro: in Italia c'è un forte senso del pudore ed è davvero sconveniente farsi vedere in topless.
A meno che non vi siano implicazioni sexy.
Ovvio dunque che scene quotidiane di bagni e docce rappresentano una stranezza difficile da gestire per gli adattori italiani; lo stesso possiamo dire riguardo ai concetti (espressi anche negli anime destinati a un pubblico comunque giovane) quali famiglie allargate, menarca, sessualità, abbandono, sangue, sacrificio, morte.
Concetti per noi tabù, ma che invece sono normali nelle produzioni nipponiche.
Da noi le opere per ragazzi devono invece essere "per tutti", senza poter turbare nessuno spettatore.
FAN SERVICE E RELAZIONI PERICOLOSE
Vero pure che i giapponesi stessi non sono certo anime sante: se per loro è normalissimo che in un cartone animato si vedano persone ai bagni pubblici, state sicuri che c'è quasi sempre un sottotesto fanservice.
È un cane che si morde la coda, perché loro stessi "usano" certi contesti per creare dinamiche ironiche/erotiche, divertenti o maliziose (Lamù, Ranma, Negima!...).
Come non citare poi tutta la costruzione -di cui sono scespirianamente maestri- dei loro personaggi?
Spesso con ambigue tracce utili a far fantasticare i fan, tra rapporti omoerotici o coppie (im)probabili (vedi Card Captor Sakura, Sailor Moon, Captain Tsubasa, I Cavalieri dello Zodiaco...).
Ciò rende un personaggio sicuramente più interessante e complesso, ma è anche una deriva pericolosa per un mercato come quello italiano.
DELOCALIZZAZIONI
Proprio perché la cultura dominante è (o era?) quella anglofona, ma ancor di più perché il Giappone era culturalmente così lontano e a tratti incomprensibile, le grandi televisioni commerciali hanno operato spesso una delocalizzazione/rilocalizzazione dei prodotti.
Eliminando -spesso in modo quasi ai limiti del razzismo- ogni riferimento alla cultura nipponica (piatti, nomi, ideogrammi, insegne, concetti...), la storia veniva ambientata in città senza nome e senza alcun accenno a qualsivoglia nipponicità; i nomi giapponesi erano arbitrariamente cambiati e brutti fermo immagine coprivano le scritte coi caratteri orientali.
Ma perché tutto questo?
Ovviamente perché, in quell'epoca, il Giappone era visto al massimo come meta esotica e distante; un Paese di robe elettroniche da nerd, pieno di "musi gialli" da confondere coi cinesi, al massimo fotografi dei nostri monumenti.
Vero che tanti anime, prima della Fininvest, passarono tranquillamente senza che fosse operata loro questo tipo di censura de-giapponesizzante; ma adesso si trattava di portare queste opere a un livello più alto di ascolti che non erano più le briciole delle TV private.
Gli anime dovevano diventare prodotti inattaccabili da genitori e comitati, sicuri sotto ogni profilo, affinché tra una puntata e l'altra potessero essere inseriti gli spot.
La cultura giapponese era ostica, i nomi difficili da ricordare e memorizzare (quando non involontariamente comici, vedi Kagato, Katsuya...), l'appiattimento era necessario per avere un pubblico immediatamente ricettivo che non avrebbe cambiato canale: Sabrina (come la Salerno) è più facile rispetto a Madoka; idem Johnny, più facile rispetto a Kyosuke.
O Bunny per Usagi, Marta per Minako, Terence per Tsuyoshi, Sheila per Hitomi e così via.
Lo sanno anche gli stessi giapponesi, che vendono spesso i loro prodotti già con qualche cambiamento in tal senso (è il caso di Luce, Marina e Anemone al posto di Hikaru, Umi e Fuu: vedi QUI) o con nomi più adatti ai mercati occidentali (vedi Utena, licenziato fuori patria come Ursula's Kiss, vedi QUI).
Non è un caso che questa operazione sia terminata proprio quando la cultura giapponese venne sdoganata, anche grazie all'ondata di anime/manga-mania iniziata a fine anni '90.
Card Captor Sakura non omise più nomi e ambientanzioni giapponesi, infatti (anche se vennero operati altri tipi di censura, a testimonianza che il pubblico italiano non era ancora pronto per certe cose: vedi QUI).
E ALLORA LE TV PRIVATE?
Come detto, i canali regionali su cui giravano intonsi tanti cartoon giapponesi, non avevano pretese commerciali così grandi; spesso nemmeno avevano pubblicità rivolte a un target di bambini/ragazzini.
E comunque operazioni di semplificazione culturale sono avvenute anche al di fuori di Fininvest/Mediaset.
Nino il mio amico ninja, o Gigi la trottola: chiaro che non si chiamavano davvero così (manco fossero partenopei). Amuro Ray di Gundam fu cambiato in Peter; in Doreaemon e Dottor Slump tutti i nomi vennero italianizzati (e, sorpresa, proprio la Mediaset ha ridoppiato le serie con un adattamento più fedele, come visto QUI).
ALLE ORIGINI
Considerare la nomi e cultura giapponese troppo "difficile" per un pubblico medio, era un pensiero che fu fatto sin dagli albori, e non solo in Italia.
Prendiamo il caso di Goldrake: Actarus, Venusia, Rigel... non sono certo i nomi veri.
A pagare più di tutti questi cambiamenti fu Koji Kabuto -pilota di Mazinga- che si chiama qui Alcor e altrove Ryo.
E I PRODOTTI AMERICANI?
Siamo quelli che hanno cambiato nome a tantissimi personaggi Disney, semplificandoli: da Mickey Mouse a Topolino, da Donald Duck a (Paolino) Paperino.
Ma è vero che, al di là di qualche ritocco, non c'è mai stato bisogno di operare sui cartoons americani: giudicati a priori "più tranquilli", non hanno doppi sensi, sottotracce maliziose e tra le loro puntate non si generano strane situazioni che potrebbero turbare un bambino.
I cartoons occidentali, almeno fino a una certa epoca, sono lineari, semplici, ritenuti non pericolosi.
In queste opere (spesso tendenti alla commedia) si celebra la vita, non il sacrificio finale (come invece succede negli anime).
Perché il concetto di morte negli anime è crudo, vero, spesso definitivo.
È un concetto filosofico, e se si affrontava la morte nei cartoons occidentali di quei tempi, era un evento sconvolgente ma didattico. A volte terribile (Volpe, tasso e compagnia) a volte usato come lezione di vita (Masters of the Universe, Bravestarr).
Gli anime hanno una diversa visione della morte, perché si rifanno a un concezione diversa della vita.
I cartoon americani del passato celebravano la cultura ottimistica, il lieto fine, un sacrificio ma non a costo di vite umane.
Quelli giapponesi sono culturalmente diversi: non lesinano su sangue e ferite, non si fanno problemi a mostrare scene più tragiche e drammatiche.
È un altro approccio alla vita e alla fruizione dei contenuti di un'opera: sapete che la scena in b/n di Kill Bill Vol. 1, se guardate l'edizione giapponese, è a colori?
Esatto, Tarantino ha utilizzato lo stesso tipo di censura mediasettiana sul sangue, privandolo del suo colore naturale.
Il concetto di morte, la parola stessa, è qualcosa di duro in un anime; ecco perché maldestramente -e in modo veramente patetico- per un periodo non si pronunciava più.
Gli adattatori trovavano ogni sorta di sinonimo pur di evitare "morire", "uccidere", morte" e via dicendo.
Concetti forti, ma ciò non deve stupirci: gli americani sanno che certe cose potrebbero non andare bene; guardate cosa riporta la sceneggiatura del film dei Masters of the Universe:
Esatto, correzioni della produzione: dove c'è scritto che Skeletor dice "kill", a penna, viene scritto chiaramente "no killing, niente morti, niente teste, sostituire con 'eliminate He-Man e i suoi alleati!'"!
Perché nella cultura dominante si deve celebrare la vita, e di riflesso ciò è stato assorbito anche da noi.
MA DAVVERO I CARTOONS NON VENGONO CENSURATI?
I cartoon giapponesi destinati a un pubblico più maturo sono diversi dai cartoon occidentali che si rivolgono allo stesso target.
Da una parte abbiamo storie intriganti, appetibili per chiunque e spendibili eventualmente per ogni fascia; dall'altra, l'animazione americana per adulti è fatta di storie ironiche che sfociano nella satira: non attirerebbero mai un bambino, che nemmeno ne comprenderebbe del tutto il contenuto.
Futurama, I Simpons, I Griffin, South Park e così via, sono classificati e gestiti come "animazione per adulti" (per dire, la categoria è questa anche su Disney Plus).
Tranne rari casi veramente "oltre", non rischiano la multa: nei palinsesti hanno uno slot tutto per loro, che non è quello della "TV dei ragazzi".
Sì, comunque anche I Griffin a pranzo sono censurati, o alcuni loro episodi non vengono trasmessi: li mandano di notte col bollino rosso.
Questi non sono prodotti che, se censurati, sono appetibili per tutti (come invece lo sono gli anime): durante la loro messa in onda, fateci caso, non ci sono spot rivolti ai bambini.
Altri titoli escono direttamente sulle piattaforme streaming, come Big Mouth.
Quindi, sì: anche se è raro, pure i cartoons occidentali vengono censurati o adattati in modo non rispettoso dell'originale.
Niente in confronto a ciò che avveniva con gli anime, certo.
Il problema è anche quello di non incappare in sanzioni da parte degli organi di monitoraggio sulla TV, pronti sempre a segnalare ogni cosa un po' particolare.
CONCLUDENDO...
Se in Italia abbiamo avuto tanti anime e questi hanno avuto tanto successo, è anche perché fino alla fine dei '90 abbiamo operato su di questi operazioni di adattamento (a volte eccessivo fino alla paranoia): pensiamo a Holly e Benji, a cui abbiamo occidentalizzato tutti i nomi (e ciò non avveniva solo nella nostra nazione, anche se spesso c'era sempre lo zampino fininvestiano pure all'estero).
La censura ha permesso, paradossalmente, a molti anime di andare in onda; la semplificazione culturale ha aiutato certe opere a imporsi; le hanno "localizzate" per l'Italia dove, all'epoca, il Giappone era fuori portata.
Ciò non giustifica tagli e cambiamenti, eticamente mai giusti; né giustifica la scelta di nomi assurdi messi al posto degli originali (Nello, Michelone...), quasi a rendere il tutto una parodia.
LEGGI ANCHE