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[CINEMA] Bohemian Rhapsody, la recensione

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C'è stato un periodo della vita in cui ascoltavo, a tutta, i Queen.
Li ascoltavo mentre disegnavo, li ascoltavo mentre leggevo, li ascoltavo mentre scrivevo.
Mi ispiravano, le loro canzoni. Testi, musica.
Eravamo nei primissimi anni 2000, gli anni della The Platinum Collection.
Poi arrivarono gli spot del Mulino Bianco (carucci) e della 3 (trash), e i Queen divennero inflazionatissimi.
Finendo addirittura a fare da colonna sonora a qualche insulso show del sabato sera di Canale 5.

Nonostante avessi continuato ad amare questo gruppo, nonostante Don't stop me now fu la più ballata nelle discoteche londinesi della mia estate 2004, non mi ero più soffermato sui Queen come feci un tempo.
Non li ascoltavo più mentre disegnavo, leggevo, scrivevo.
Il loro mito però era ancora dentro di me, pronto a riesplodere.
Ed è riesploso, emozionalmente, con la visione di Bohemian Rhapsody.

Un bel film: questo è.
Ok, vero, corre veloce (pur nelle sue due ore e mezza); alcuni passaggi si intuiscono solamente; altri saranno storicamente imperfetti; certi momenti saranno sicuramente romanzati.
Ma è un bel film.
Ok, vero, chiude con l'esibizione al Live Aid e non ci mostra il seguito (quindi niente Highlander...), ma è anche vero che si riesce ad ascoltare Who wants to live forever e subito -ancora una volta, dopo Highlander- è il pezzo di una delle scene più commoventi di sempre.



Cast di sosia, ma bravi (bravissimi) a recitare.
Il Mr. Robot Rami Malek è un perfetto e pedissequo Freddie Mercury: incredibile il suo essersi trasformato totalmente nel frontman dei Queen.
Ben Hardy è Roger Taylor, batterista.
Il nipotino del fondatore di Jurassic Park, Joe Mazzello, interpreta John Deacon.
Gwylim Lee è Brian May, o forse un suo clone.


La produzioneè stata travagliata: aspettavo questa pellicola sin dal 2010, quando venne annunciata.
Da allora, un susseguirsi di abbandoni e stop, sceneggiature riscritte e altre finite nel limbo.
A un certo punto sarebbe dovuto essere un film folle e senza barriere su Mercury e la sua vita sfrenata, con -spoiler (!)- la morte del protagonista e una seconda parte di storia che avrebbe riguardato il seguente futuro della band.

Ne viene fuori un film più pacato, diretto da Bryan Singer che poi viene licenziato per comportamenti poco consoni (e sostituito in corsa da un Dexter Fletcher già ipotizzato precedentemente...).
Un film che evita gli ultimi anni di Mercury e si concentra su aneddoti e musica, senza risultare didascalico.
Ottime le ricostruzioni e gli ambienti.
E vi sarà impossibile non cantare durante la visione.


È la storia del rock e di una delle band che hanno fatto epoca.
Il racconto si fa corale, quando serve, ma i riflettori sono tutti per Freddie e le sue vicende.
Non era un santo, anzi a volte è stato insopportabile, scorretto, stronzo, vanitoso, primadonna.
Ma è stato anche una personalità fragile, combattuta sul piano dell'identità sessuale e della provenienza geografica.
Più star che uomo, in quest'opera, ma dopotutto Freddie era una star.

Il film insegna che genio e sregolatezza vanno di pari passo, e quando i geni sono ben quattro, è meglio lasciar correre le idee -anche apparentemente contrastanti tra loro, o contrastanti con passato e futuro- perché è qui, signori, che si fanno belle cose.
E lo spettacolo deve continuare.

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