Torniamo a parlare dell'ultima fatica di Quentin Tarantino, C'era una volta a... Hollywood.
La mia recensione senza spoiler del film la trovatecliccando QUI; oggi passo invece la palla all'esperto Edoardo Romanella, che analizza per noi il significato di quest'opera già giudicata controversa, non solo per il metaforico finale.
Lascio dunque la parola a Edoardo, noi ci rileggiamo nei commenti dove darò la mia interpretazione sulla questione.
Buona lettura (vi ricordo che ovviamente ci sono spoiler)!
di Edoardo Romanella
E sullo sfondo, gli attori, le attrici, i registi, gli addetti ai lavori e i programmi di quegli anni, tra realtà e fantasia: da Polanski a Sharon Tate, da Steve McQueen a Bruce Lee, fino a Charles Manson.
Già dal titolo si può intuire il perché in teoria non dovrebbe essere necessaria una spiegazione: C’era una volta a... Hollywood. Signore e signori, tutto ciò che ci viene mostrato dall’inizio alla fine non è altro che una favola, un racconto di fantasia, al cui interno sono contenuti diversi personaggi realmente esistiti e show realmente andati in onda, ma la realtà si ferma qui. Tutti gli eventi sono frutto della fantasia del regista, la realtà è andata diversamente.
Dalla serie Bounty Law, al successo degli spaghetti western, fino al memorabile finale. È un film pieno zeppo di omaggi, di show e film del passato e di riferimenti ai suoi film precedenti, compreso un uso viscerale di piedi femminili.
Citazioni e autocitazioni continue, da Punto Zero alla nazisploitation, dai vecchi western alle serie anni '70. Gli ultimi venti minuti sono da applausi a scena aperta, e proprio questo epilogo fantastico dovrebbe farvi riflettere sull’ottica in cui è stata realizzata la pellicola: una favola in cui molti vengono presi in giro, molti vengono inventati, dove Leno LaBianca e Sharon Tate si salvano dai seguaci di Manson, perché questi ultimi sbagliano casa e si ritrovano a fare i conti con Cliff e Rick, in un tripudio di splatter, azione e immagini, in una celebrazione di puro cinema, tutto in stile Tarantino (la scena del lanciafiamme è un omaggio a John Carpenter).
Ma nella realtà le cose sono andate diversamente, non c’è posto per le favole e gli eroi: Leno LaBianca e Sharon Tate sono stati uccisi.
Ergo, questo film non pretende di essere un resoconto di quanto accaduto, è solo un omaggio a Hollywood, alla maniera di Tarantino come detto sopra. È il suo film più personale, quello in cui sono contenuti tutti gli altri suoi film e tutta la sua poetica. Un film che contiene se stesso, come se avesse realizzato un film su un film. Tuttavia ci sono due cose che è necessario io dica: la prima è che confermo, pur essendo un grande omaggio, che ad oggi il più grande omaggio a Hollywood e al cinema è INLAND EMPIRE (QUI l'articolo); la seconda è che il sunto di una intera poetica, nonché filmografia, da parte di un regista non è cosa nuova. Lo ha già fatto Lars Von Trier con La casa di Jack, ma ancor prima David Lynch, firmando un’opera colossale capace di oscurare letteralmente entrambi i capolavori già citati: Twin Peaks (QUI l'articolo).
Non lo ritengo il suo film migliore, ma è comunque un lavoro notevole, dove per la prima volta cerca di andare in profondità. E a tal proposito, bellissima è la riflessione di una dei seguaci di Manson sul ruolo della tv: la televisione mostra continuamente omicidi, nei Tg, nelle serie e nei film, quindi è un dovere uccidere i maiali (così chiama gli addetti ai lavori) che hanno mostrato agli spettatori come si uccide. In questa favola tutti i personaggi sono volutamente esagerati e caricati, come di consuetudine fa Tarantino. Non si prende troppo sul serio e prende in giro tutti gli altri, ad eccezione di uno: Sergio Leone.
Prende in giro gli spaghetti western, che come dice DiCaprio “non piacciono a nessuno”, pur essendo la realtà diametralmente opposta a tale affermazione. Eppure, nonostante ciò, non riesce a ironizzare su Sergio Leone. Si sa che per lui è un mostro sacro, intoccabile, e ci sta, così come ci stanno i doverosi omaggi rivolti a lui. Il primo nel titolo, che si rifà al primo capitolo della cosiddetta Trilogia del Tempo: “C’era una volta il West”. Il film immortale, il film sulla nostalgia, il film sul mito. Il secondo è indiretto, e fa riferimento a un dialogo tra Di Caprio e Al Pacino al telefono, in cui quest’ultimo invita l’altro a fare un film con Sergio Corbucci, e alla risposta di Di Caprio su chi diavolo sia Sergio Corbucci, risponde: “il secondo miglior regista di spaghetti western”. Inutile dire chi sia il primo.
Tuttavia c’è una cosa che proprio non ho digerito di questa pellicola: il trattamento riservato a Bruce Lee.
Bruce Lee è stato un atleta incredibile, è stato l’artista marziale, il guerriero, è stato un pensatore ineguagliabile, un filosofo eccelso, è stato un attore, è stato la personificazione della controcultura. Bruce Lee è stato tutto ciò che poteva essere. E Tarantino lo rende un emerito coglione, una caricatura sia come atleta che come persona (il doppiaggio italiano su Brad Pitt comunque fa schifo, se guardate il film in lingua originale dice cose diverse).
Questa, ripeto, è una favola, e non rispecchia la realtà, ma se Sergio Leone è intoccabile, anche Bruce Lee dovrebbe esserlo. Per lui avrei scelto una favola diversa.
Anche perché lo ha spesso omaggiato (un esempio è Kill Bill), dichiarandosi più volte suo fan, per cui quest'ultimo ritratto si scontra con un concetto espresso da Al Pacino, quando spiega a Dalton la funzione dell'immagine: se sullo schermo interpreti un personaggio che perdere, agli occhi della gente sarai un perdente nel mondo reale.
È l’influenza dello schermo sulle persone, non importa se sia finzione, se sia solo una parte recitata da un attore, se sia uno show.
È l’espressione visiva che il Sistema usa per plasmare le menti, e può essere usata per qualunque scopo. Ergo, in riferimento a tale concetto, sembra quasi che voglia screditare l’immagine di Bruce Lee agli occhi del pubblico.
O, al contrario, potrebbe essere l’opposto: l’affermazione della non veridicità di ciò che viene mostrato al pubblico, proprio in virtù del ragionamento fatto sopra. Chissà. Io comunque non ho gradito affatto, tant’è che pure gli attori (Brad Pitt su tutti) hanno dichiarato di essere stati titubanti a girare la scena, convinti poi dal regista che ha rimarcato la totale funzione fiabesca della pellicola. Ma tutto ciò ci può stare nell’ambito della finzione.
Quello che proprio non ci può stare sono le dichiarazioni di Tarantino postume alle polemiche, in cui ribadisce di aver letto e sentito dire (da chi non si sa, forse da Gene Lebell) che Bruce Lee era uno spaccone egocentrico e incapace, e quindi il ritratto da lui dipinto non sarebbe poi così fantasioso. Ecco, dopo le critiche da parte di Shannon Lee e le smentite da parte di una miriade di atleti, allievi e attori che hanno conosciuto Lee, forse faceva meglio a chiedere scusa e stare zitto.
Così ha dimostrato solo povertà d’intelletto e completa ignoranza in materia. O forse è stato tutto studiato a tavolino, come esperimento sociale o semplicemente per incrementare gli incassi. E chi lo sa? Solo un’ultima cosa mi sento di dire: Tarantino, scherza coi fanti, ma lascia stare i santi.
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