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[DOCUMENTARIO] Wanna, la serie Netflix: la recensione

 

Ingannare sempre, pentirsi mai. D'accordo?
Il claim del nuovo e chiacchierato prodotto Netflix sembra indicare già la strada che lo spettatore è chiamato a compiere, in queste quattro puntate.
Wanna, documentario sulla vita -televisiva e non- di Wanna Marchi (e figlia, e non solo) è una serie veramente bella, ben realizzata e intrigante.

Non solo la regina delle televendite, ma la televendite in sé: Wanna deve pur partire da un punto, che farà felici gli appassionati di televisione.
È -anche- storia delle TV private, dei centralini impazziti e di un sottobosco di personaggi ambigui.
E ovviamente è la storia di questa donna, della sua giovinezza, dei suoi sogni e di come tutto è andato a rotoli, più volte.






Pensare a Wanna Marchi e Stefania Nobile, oggi, significa tornare con la mente solo a quel 2001 col servizio di Striscia che inchiodò le tue teleimbonitrici.
Un processo lungo e mediatico: appelli, sentenze, carcere.
Ma, in Wanna, quello è praticamente solo l'ultimo capitolo della storia: una storia ben più articolata e che solleva alcuni veli molto particolari, lasciando lo spettatore con tante domande.






Non facciamo qui il processo a madre e figlia: hanno truffato? Per la legge sì, e così è.
Il punto di vista etico e giuridico forse combacia, forse no: "i coglioni meritano di essere inculati", ma è giusto così?
In sostanza, anche la legge italiana ormai non tutela più i creduloni, e vorrei vedere.
Discutibile e ai limiti della legalità è invece il fondo dove si sono spinte le due imputate, con ricatti morali e un sistema mirato a irretire alcune "vittime".
Fa parte del marketing, specificano loro.






Vendere un prodotto è solo il primo passo per aprirsi un varco verso il proporre altri probabili acquisti: si tratta del mantenersi un cliente.
Tutti creiamo una catena: lo faccio io quando inserico altri link ai miei articoli (per permettere l'approfondimento e tenere il lettore ad appassionarsi di più al mio blog), lo fa il negozio di scarpe che in cassa ti vuol vendere calzini, deodorante, lacci.
Lo facevano Wanna Marchi e Stefania Nobile, e però loro ci ricavavano miliardi a palate.
Un tesoro di cui si favoleggia ancora.






Il problema per le due donne non fu tanto il finire nel mirino della criminalità organizzata; non fu la bancarotta degli anni '90 che portò la signora Marchi già una prima volta in carcere.
Il vero casino è stato maneggiare con poca cura e molta faciloneria (e un tocco di arroganza) una materia tanto pericolosa quanto aleatoria come la fortuna.
Malocchio, oroscopi, amuleti, lettura delle carte e un cuoco/cameriere con qualche conoscenza candomblé: il maestro di vita Mario Do Nascimento.






È lì che Wanna e Stefania si spingono oltre: non più creme dimagranti e prodotti comunque studiati da un chimico di fiducia, ma qualcosa di impalpabile su cui basare l'ennesima catena.
Il sale ovviamente non si scioglie, e parte così un rito magico.
Si vende il nulla e si fa leva sulla paura della gente.
Apro una parentesi: è ciò che la Chiesa fa da secoli, sventolando la dannazione eterna come implicita minaccia, portando così un sacco di soldi nelle sue casse.
Funziona, perché la gente ci crede ed è costantemente peccatrice: impossibile non peccare, come è impossibile che una certa quantità di sale si sciolga in acqua.






Da condannare -e infatti madre e figlia e spirito santo (Da Nascimento) sono stati condannati- è il modo fin troppo aggressivo e senza pietà con cui mandavano avanti la catena.
Le gente, per loro, si è rovinata. C'è chi ha rubato soldi a marito e figli, chi si è prostituito.
Forse non succede con chi dona soldi alla religione (se non a qualche assurda setta) in cambio della pietà di Dio, ma queste cose avvengono anche a chi si affossa ai legalissimi videopoker. Così, per dire.
Ma le vittime sono vittime, e non è mai giusto affondare sulle fragilità della gente: è inelegante, è brutto, truffaldino.
Porta tanti soldi, ma anche la galera.
Specie se hai un nemico potente (e su questo sospetto si basa parte della serie).






Wanna e Stefania non sono pentite: il documentario scava a fondo, forse più di ogni altra volta, nella loro personalità.
Non concepiscono un pentimento perché nella loro testa non avrebbero fatto nulla di male; non provano emozioni se non l'una per l'altra, sembrano non ammettere il perdono e questo è l'aspetto più particolare che esce fuori da Wanna.
Sono loro due, sole, contro tutto e tutti. Incaute e aggressive, donne e bambine. Le uniche che restano mentre tutti fuggono, le uniche che pagano per i peccati.
In una eterna infinita guerra col resto del mondo, dove il guadagno è un riscatto più che una soddisfazione.






Figure che arrivano a punte di odio verso tante persone, figure che vengono a loro volta odiate e disprezzate ma non lasciano indifferenti.
Hanno fatto, trent'anni prima degli influencers, quel che fanno i divi del web: televendite che erano racconti di vita, dirette vere e proprie, uno storytelling preciso che intratteneva lo spettatore.
Wanna ripercorre tutto questo e molto, molto di più: intervengono volti del giornalismo, della TV (da Ghione di Striscia a Roberto Da Crema, protagonista di un simpatico trailer), vittime, ex collaboratori della ditta, avvocati e addirittura gente condannata per affiliazione mafiosa.






Wanna
solleva tanti veli, dietro a una storia di televisioni e frequenze, di imprenditori e di misteriosi individui oggi scomparsi dalla circolazione.
Uno spaccato italiano dove probabilmente c'è molto di più oltre le televendite, ma su cui forse nessuno indagherà mai.
Prendetevi quattro ore e guardate i quattro episodi di questo documentario, che non giudica e racconta senza problemi luci e ombre di un fenomeno.
E una raccomandazione: negli eventuali commenti vi invito a non alzare toni e parole, d'accordo?

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