Da ragazzino amavo il Carnevale.
Non vedevo l'ora che arrivasse, per partecipare alle festicciole organizzate da genitori o parenti.
Non vedevo l'ora che arrivasse, per la festa a scuola. Per gli scherzi, la sfilata dei carri, per gli oggetti da comprare.
Oggi, da molto tempo, non è più così.
Il Carnevale sporca.
E' colorato, divertente, casinaro. Ma non ne sono più attratto. Mi ci sono trovato invischiato e allora ok, si balla, e magari mi diverto anche.
Ma non lo cerco più. Non sento più quella follia di tanto tempo fa, terminata in terza media.
Terminata quando, vestitomi da nazi punk cattivo, mi disegnai coi pennarelli una svastica sui jeans vecchi e strappati. Perché lo vidi fare a altri amici, manco ci pensai più di tanto: per me era un disegno come un altro, esattamente uguale alla cicatrice o al teschio.
E, durante una festa nella tavernetta di alcuni zii, un signore mi rimproverò. Tirò su un pippone sul fatto che avessi addosso quel simbolo, che la gente era morta e via dicendo.
Cioè, che pesantezza. Ci rimasi malissimo.
Ammazzi la gioia anche se sei il prete che, durante la messa della domenica di carnevale, rimprovera i bambini giunti lì in maschera, pronti per festeggiare appena usciti da quella tortura medievale.
Ma prima lo amavo, il Carnevale. La pentolaccia, i coriandoli, i dolci.
Il Carnevale è uno sfogo per gli adulti ma soprattutto una festa per i bambini. O viceversa?
Uno sfogo per chi deve sfogarsi: l'unico sfiatatoio di follia in 365 giorni di "sì, padrone".
Sarà che non ho bisogno, ancora, di sfogarmi.
Sarà che non mi servono maschere, sarà che vedo maschere ogni giorno. E forse anche io le indosso come tutti.
Il Carnevale, oggi, è sempre. E non è nemmeno più così colorato.
Spero di non diventare mai come quel signore che mi rimproverò per il disegnino.
Oggi farò anche io qualcosa. Dopotutto, a Carnevale ogni scherzo vale, sempre.