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[FILM] A classic horror story, la recensione (?)

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Ai primi posti su Netflix, un horror tutto italiano dal regista di The Nest.
Metacinema, paraculismo, citazioni e vaga intelligente fantasia in un mare di voluto già visto.
A classic horror storyè un film probabilmente irrecensibile, comunque non classificabile.
Ma giudicabile, alla fine della fiera, per comprendere lo stato dell'horror nostrano: perché il presupposto è quello di sempre, ossia che gli italiani i film (horror e non solo) non li sanno fare.
Ma sarà vero?


Midsommar, Misery non deve morire, Wrong Turn.
Tutto già visto, ma voluto.
Niente di nuovo sotto il sole (della Calabria), anzi forse la novità è questa: un horror ambientato in Calabria, e non (purtroppo, forse) in un Meridione assolato e bruciato, ma rigoglioso e boschivo e verde.





Dai diner all'americana (con un quadro di San Francesco anticipatore), teste di cervo come Lynch, blablacar che radunano cinque sconosciuti in strade lontanissime e deserte: A classic horror storyè proprio un classico film dell'orrore, un po' torture porn e un po' rape & revenge (per fortuna), con molto delle derive attuali.
Attuali, ma non italiane.




Guarda all'America, nell'eleganza dei colori e della fotografia; tenta di fare un po' come il Suspiria di Guadagnino ma non vuole nemmeno spingersi a quei livelli (quali, dopotutto?).
A classic horror storyè un film strano.
È la storia di alcune persone in un camper: la consueta final girl, una coppietta multietnica di hippy, un influencer cazzone e un medico con scheletri nell'armadio.
Purtroppo per loro, inizia un incubo senza spiegazione: finiti fuori strada, si ritrovano in un non-luogo.
Un pizzico di Lost, ma non per forza.
C'è anche molto altro, ma sempre già visto. Red State. Cub.
Anche se l'idea di una setta oscura -nel nulla più assoluto- che idolatra i fondatori mitologici della 'ndrangheta Osso, Mastrosso e Carcagnosso (cavalieri spagnoli che vendicarono l'onore della sorella) è davvero originale e potenzialmente intrigante (tanto da farne quasi un mafia-movie in salsa pulp), il tutto si ferma dove i registi Roberto De Feo e Paolo Strippoli vogliono che si fermi.




Perché il senso di questo film non è nemmeno raccontare una storia, ma fare (auto)critica in modo paraculo, iniziando da se stesso a dire che non è bello, che manca qualcosa, che si poteva fare di più, che assomiglia a questo e quell'altro e che gli italiani, i film horror, non sanno farli.
In questo, A classic horror story non è brutto, non manca di niente, non doveva fare di più e assomiglia sì a tante cose (pure Tarantino, per dire), ma non è vero che gli italiani i film horror non sanno farli.
Li abbiamo sempre saputi realizzare, specie in passato: abbiamo lanciato generi e sottogeneri, storie da brivido e con studi esoterici veri.
Forse lo abbiamo dimenticato, e A classic horror story ce lo vuole ricordare, per aprirci gli occhi pur cavandoceli, per farcene parlare pur tagliandoci la lingua, per tenderci quelle orecchie che ci recide.




Accurato, colorato, freddo e caldo, fintamente internazionale, il film è solido nella sua trama che mette effettiva curiosità pur con (volute) castrazioni anticlimatiche, ma che regala un finale almeno gustoso e un postfinale che rimetterebbe ancora tutto in pista almeno nelle intenzioni meta-narrative.
Cast tutto nella parte, iniziando da Peppino Mazzotta.
Insomma, i film horror li sappiamo fare, quest'opera vuole ricordarcelo ma non dimostrarcelo.

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